A volte – persino negli ambienti con le iniziative migliori per la lotta al patriarcato – può accadere che la ribellione si irrigidisca. Che si codifichi in formule fisse, anche se non abbiamo il coraggio di chiamarle tali. Che ci si abitui a giudicare rivoluzionarie solo alcune forme d’espressione, e da brave rane bollite ci si scordi di guardare oltre la superficie.
Di certo è ciò che è accaduto in molti, troppi contesti LGBTQIA+, che hanno un serio problema con la femminilità e una glorificazione malsana del maschile. Ad onta del fatto che venga spesso taciuto o preso sottogamba, è un problema che ha effetti profondi sulla psiche, sui corpi, sull’espressione di genere, sul modo di porsi di fin troppe soggettività queer, e che tradisce parecchie influenze patriarcali non ancora smantellate.
So che possa sembrare una sorpresa sentirlo: in pratica e in teoria ci facciamo in quattro per parlare di femminismo intersezionale! E come negare che cerchiamo di rivendicare delle narrazioni plurali del nostro modo di essere, agire, sentire, che una visione unica e ciseteronormativa ci ha nascosto per troppo tempo?
Eppure, è vero. Anche noi giudichiamo ciò che ci è stato insegnato sia “maschile” come lo standard del mondo. Anche noi tendiamo a preferirlo, a ritenerlo più serio e affidabile. Anche noi gli attribuiamo un maggior prestigio ed empowerment rispetto a ciò che culturalmente ci è stato additato come “femminile”.
E i condizionamenti patriarcali sono tanto più insidiosi quanto più rimangono normalizzati.
Al fine di stare tuttə meglio credo dovremmo smetterla di negarlo, affrontando l’argomento e le sue fallacie.
I miei prossimi tre articoli spiegheranno proprio cosa implichi questa faccenda. Andranno presi come un J’accuse a tutte le questioni che, come comunità, abbiamo deciso di relegare nell’angolo.
Capitolo primo: come danneggia il mondo achilleo
Sì, malgrado l’alleanza un po’ reale un po’ fittizia tra uomini gay e donne etero decantata nella cultura pop, malgrado l’identificazione con parecchi personaggi femminili che si incoraggia almeno di facciata in un certo tipo di attivismo, malgrado l’esaltazione delle “frociarole”, bisogna parlare anche della polvere sotto il tappeto. A cominciare dal Bottom Shaming.
Per chi non lo sapesse, “Bottom Shaming” (letteralmente “vergogna/biasimo verso chi è passivo”) è la svalutazione degli uomini achillei che durante un rapporto sessuale sono riceventi. È una forma di discriminazione che assume varie forme: spazia dai commenti negativi, le battutine che talvolta scivolano anche nell’autoironia mista a disprezzo di sé (quando si interiorizza la vergogna per non combaciare con gli stereotipi in voga); passa per lo sminuire e il ridurre a caricatura chi preferisce questo ruolo; fino ad arrivare allo scarto di partner percepiti come effeminati, nella vita reale o virtuale, al grido di “Cerco virili, niente fem” o “A questo punto tanto valeva che mi mettevo con una donna, sembri uguale.”
Perché questo modo di procedere non può essere ritenuto un tratto fondamentale, una peculiarità un po’ simpatica un po’ scocciante della comunità achillea?
Perché non tenercelo con una smorfia divertita o con un sorriso stanco, come davanti a una vecchia tubatura difettosa ma troppo innocua per dare fondo alle risorse e ripararla una volta per tutte?
Perché dovrebbe essere subdolamente misogino e pericolosissimo per più di un genere?
Perché tale forma di discriminazione non riguarda solo il sesso. Si estende a molti altri aspetti, fisici, psicologici, esistenziali e relazionali tra uomini e tra il resto delle persone. E non ha a che fare solo con l’essere percepiti come più o meno desiderabili, ma con l’essere percepiti come più o meno validi umanamente parlando.
No, non lo dico solo io
Per trovare prove rapide di quanto sopra non è manco necessario prendere per buona solo l’esperienza personale dei singoli individui, farsi una chiacchierata con qualche uomo achilleo molto attivo nella comunità o limitarsi a un giretto su Grindr e altre App di incontri, anche se fare una prima scrematura sarebbe davvero così facile.
Pagine Instagram come The Gay Good e podcast come Bottoming o Gay Men’s Life Lab (quest’ultimo del coach e terapeuta Buck Dodson) hanno già affrontato l’argomento del Bottom Shaming/delle leggi non scritte quando si intrecciano relazioni achillee in generale, e hanno anche puntato il dito contro le radici in cui affondano i nostri rigidissimi standard sulla virilità, ricordando in modo diretto o indiretto che essi vengano da lontano.
E che vengano da lontano l’hanno dimostrato, nel mondo cis etero, attivistə ed educatorə femministə come Jackson Katz e Rosalind Wiseman. Per decenni si sono occupatə di mettere a nudo quanto culto del machismo ci sia negli standard sulla virilità che vanno per la maggiore, proponendo alle loro classi un semplice esercizio.
Wiseman racconta, nel libro Queen Bees & Wannabes: Helping Your Daughter Survive Cliques, Gossip, Boyfriends, and New Realities of Girl World, che per oltre trent’anni lei e Katz abbiano chiesto ai ragazzi a cui insegnavano di disegnare un quadrato, all’interno del quale elencare tutte le caratteristiche che secondo loro definivano un uomo “vincente”. All’esterno del quadrato, invece, avrebbero dovuto scrivere tutte le caratteristiche di un “perdente”.
A grandi linee le risposte sono state sempre le stesse, come ci sarebbe da aspettarsi per qualunque standard oppressivo mai curato davvero.
All’interno del quadrato: soldi, automobile, conquistatore di donne, grande scopatore, atletico, muscoloso, posizione lavorativa prestigiosa, ha tutto sotto controllo, dalla battuta sempre pronta, simpatico, aggressivo, dotato, astuto, sa come farsi strada.
All’esterno del quadrato: sensibile, mammone, si sforza troppo, gli piacciono gli uomini, timido, grasso, dal corpo flaccido, coi pettorali cascanti, dal pene piccolo, è un secchione, è uno sfigato, piange.
Se si legge con attenzione si può notare come le caratteristiche del “perdente” siano tutte caratteristiche associate (per stereotipo o somiglianze anatomiche) al genere femminile. Da qui in poi il sillogismo è semplice:
Le donne nella cultura machista sono il sesso debole, da sottomettere e umiliare, e assomigliare a loro è degradante;
Gli unici uomini autorizzati ad avere atteggiamenti “femminei” secondo la cultura machista sono quelli attratti da altri uomini;
Essere uomini attratti dagli uomini rende più vicini a quell’essere inferiore che è la donna; pertanto, sono disprezzabili quanto se non più delle donne.
Omofobia e misoginia vengono dalla stessa matrice. Abbiamo un fior fiore di prove che donne e uomini achillei siano equiparati dalle persone più ignoranti e in malafede. È sempre colpa del patriarcato se ci sono atteggiamenti violenti verso le donne e gli uomini achillei.
Quel che è peggio, secondo l’ottimo documentario The Mask You Live In (La maschera che indossi), diretto da Jennifer Siebel Newsome, è che la cultura di massa americana (e più genericamente occidentale) quasi sempre non dà agli uomini direttive chiare su cosa significhi essere tali. Di solito si limita a punirli quando osano esprimere gli stessi modi di fare/essere che gli studenti di Wiseman e Katz hanno scritto nell’esercizio alla voce del “perdente”.
“Non piangere, non essere debole, non farti fregare, nulla deve scalfirti, non farti cogliere impreparato, non fare la mammoletta, non parlare dei tuoi problemi ma ridici sopra, non arrenderti, non essere tu quello che le busca, non essere troppo attaccato alle donne della tua vita e non prediligere la loro compagnia a quella dei tuoi amici…”
Ne consegue che essere un uomo sia principalmente un lavoro di sottrazione e negazione: bisogna non essere delle donne.
In genere non lo sanno neanche gli uomini cosa faccia scattare l’accusa di essere “fr*ci” o “femminucce”.
Può essere un braccio che in posizione di riposo si tiene in maniera troppo molle o troppo tesa. Può essere un modo di ridere, la preferenza per certi tipi di film, alcuni hobbies tradizionalmente riservati alle donne. Può essere qualunque cosa, e può rendersi necessario nasconderla/estirparla con tanta scrupolosità da far girare la testa.
Tuttavia, il documentario mostra anche che almeno tre parametri possano essere rilevati:
Un vero uomo ha un fisico atletico, pompato e ipervirile;
Un vero uomo ha successo nel lavoro e tanti soldi;
Un vero uomo ha sempre bisogno di sesso e lo ottiene con facilità, da molte donne diverse;
Questa Triade maledetta è onnipresente, e ognuno di questi tre parametri alimenta gli altri due.
E quindi?
Prendiamo tutto questo e cerchiamo di pensare a cosa comporti se ci si identifica come uomini, ci si sente attratti dagli uomini, si vuol essere riconosciuti come tali… e al contempo si debbano sfidare due comunità piene di preconcetti.
Da un lato i preconcetti dell’ampia comunità ciseteronormata, che dileggia i personaggi di macchiette gay super effeminati a causa dei condizionamenti di cui sopra; premia i pochi esempi di gay super macho che conosce, in quanto più rassicuranti perché “sembrano uomini pure loro”; cerca di castrare fin dalla più tenera età degli uomini qualunque modo di essere ricordi vagamente “il femminile”; e tra eterosessismo ed eteronormatività universalizza un solo tipo di amore, riservando condiscendenza, disprezzo e/o violenza (a seconda dei casi) agli uomini gay e non monosessuali.
Dall’altro lato i preconcetti della nicchia LGBTQIA+ e achillea, che pur di prendere le distanze dallo stereotipo “più degradante” si sente incalzata a essere ancora “più virile” del modello cis etero: è il suo modo di “scusarsi” di non rispecchiare al 100% lo standard promosso da chi ci opprime, e dimostrare di avere comunque un valore.
Un vicolo cieco verso cui corrono fin troppi, perché la vera tragedia del machismo è che un uomo non sarà mai uomo abbastanza.
È per questo che orribili slogan con una diffusione vergognosa sulle t-shirt come “No Fat, No Fems” sono da leggere, oltreché come grassofobia, anche come misoginia e omofobia interiorizzate, con una sciccosissima intersezione di discriminazioni.
È per questo che l’ossessione per il body building e lo sviluppare disordini alimentari, allo scopo di raggiungere il fisico ideale, sembrano essere rischi più concreti per gli uomini achillei rispetto a quelli etero, e non possono essere liquidati come vezzi/vizi soggettivi.
È per questi simboli, per il modo in cui agiscono sull’inconscio che, inevitabilmente, molti uomini achillei hanno avuto anche grandissime difficoltà a decostruire la mascolinità tossica e a capire che essere sensibili, affettuosi ed espansivi nelle relazioni intime – o anche solo desiderare contatto fisico platonico – non siano “qualità femminili”, ma “qualità umane”. E in quanto esseri umani avrebbero avuto ogni diritto di esprimerle.
(Per non parlare dell’intersezione con la transfobia che questo modus pensandi rivela anche verso gli uomini achillei assegnati al genere femminile alla nascita, e quanto tale pressione e tale odio per i loro corpi possano acuire il dolore, il senso di esclusione e la disforia…)
Anche gli studi in merito ai problemi del mondo achilleo con la femminilità/effeminatezza parlano chiarissimo, dimostrando i punti di cui sopra, e trincerarsi dietro ai “legittimi gusti sessuali” significa rifiutarsi di riconoscere un problema sistemico e gerarchico.
E che riverbera degli atteggiamenti lesivi ed escludenti della maggioranza lesboomobitransafoba verso di noi.
Vedete, non è mai solo una questione di “preferenze soggettive” quando esse hanno un sostrato culturale bello pesante sotto. È questione di chiedersi da dove scaturiscano tali preferenze – soprattutto se sono massicce, soprattutto se inconsciamente hanno anche un giudizio di valore collegato. È questione di chiedersi se ci sia un prezzo da pagare per aderirvi e/o per non aderirvi.
Alla base del Bottom Shaming c’è l’esaltazione ossessiva di un solo tipo di virilità. Questa, per una mentalità separatista e rigida stile “o sei giusto o sei sbagliato”, trasuda avversione verso qualunque uomo non sia atletico, muscoloso e tradizionalmente mascolino. Propone standard opprimenti e conformismo, almeno a un livello inconscio è molto misogina, e ricercarla spasmodicamente nella comunità achillea vuol dire aver messo in discussione ben poco il patriarcato, la ciseteronormatività e l’omofobia stessa.
Conclusioni
Per questa prima puntata sullo smettere di osannare il nostro concetto parziale di mascolinità nei contesti LGBTQIA+ vi lascio con qualche domanda:
Quanti altri uomini achillei devono sentirsi inadeguati e infelici per gli stereotipi che, come comunità queer, non sfidiamo?
Quante altre persone devono pagare il prezzo dei problemi che giudichiamo di poco conto, sebbene si annidino anche nei cervelli e nei contesti che dovrebbero essere più sicuri?
Quanta rigidità, e proprio per questo quanta fragilità, insicurezza, evanescenza rivelano i nostri modelli interiorizzati di virilità?
Io me lo chiedo spesso e cerco di fare del mio meglio perché la conversazione non scompaia dal radar di chi ha a che fare con me.
Visto che come mondo LGBTQIALGBTQIA+ dovremmo celebrare le differenze, allo scopo di capire che alla radice siano tutte meravigliose sfaccettature di un unico genere umano, ricordiamoci che l’unico requisito per essere uomini è sentirsi tali.
Già solo per questo, ogni uomo, nella sua unicità, è letteralmente il genere maschile fatto a persona.
E per concludere, fino a prova contraria, essere achillei significa amare gli uomini.
Non significa odiare/disprezzare le donne.
Non significa prendere le distanze da ciò che la nostra cultura addita come “femminile/appannaggio delle donne/di minor conto rispetto alla virilità/troppo diverso per essere accettabile in un uomo”.
Non significa usare compartimenti stagni in cui incasellare i partner ideali/non ideali.
Non significa usare un modo di ragionare dicotomico, separatista, polarizzante e oppressivo.
Questi sono turpi effetti collaterali di condizionamenti sessisti non sanati.
