Quando la smetteremo di osannare il maschile? (Versione trans)

Rieccoci alla seconda puntata di questo J’accuse contro l’ossessione per la mascolinità (per come ci è stata spiegata culturalmente parlando) che ancora regge in modo subdolo nella comunità queer, la stessa che dovrebbe sfidarla. Almeno in parte lo stiamo facendo, e con ottimi risultati. Ma, poiché non c’è mai limite al miglioramento collettivo, è più saggio andare a scavare tra gli anfratti degli stereotipi che abbiamo interiorizzato al posto di negarli o giustificarli, nevvero?

La volta scorsa abbiamo visto come i condizionamenti sessisti non riconosciuti e non sanati danneggiano la comunità achillea, tra Bottom Shaming, omofobia e misoginia interiorizzate, transfobia conseguente e studi che dimostravano ognuna di queste cose e molto di più.

Adesso il compito si fa più arduo, perché andrò a parlare di una comunità ben più marginalizzata di quella achillea e (in buona misura) cisgender.

Capitolo secondo: come danneggia il mondo transgender e non binario

Mettiamo subito in chiaro una cosa: le persone transgender, e in particolar modo quelle non binarie, NON DEVONO ESSERE ANDROGINE PER ESSERE PRESE SERIAMENTE.

Non c’è scritto da nessuna parte che debbano avere un determinato aspetto fisico (magari essendo tutte cloni di David Bowie o Tilda Swinton, preferibilmente magre, caucasiche, normodotate, senza curve e senza seno se sono assegnate femmine alla nascita), vestire in un determinato modo (su questo ci arriveremo, oh se ci arriveremo) e parlare o atteggiarsi in conformità a questi standard.

Neppure uomini trans binari e donne trans binarie hanno il dovere di essere ipermascolini o iperfemminili così come mascolinità e femminilità sono concepite nella nostra cultura.

Donna, uomo e/o qualcosa d’altro lo è chi sente di esserlo, senza che si possa mettere becco o circoscrivere il rispetto della loro identità di genere soltanto a coloro che incarnano i modelli “giusti” secondo la nostra rigidissima cultura di massa.

Tuttavia, alcune persone transgender e/o non binarie vogliono interrogarsi e si interrogano su cosa significhi trascendere sessismo, patriarcato, binarismo di genere e trovare la propria definizione di libertà anche nel loro modo di esprimere il genere/i generi/l’assenza di un genere che sentono di avere. Talvolta possono voler condividere questa riflessione col mondo esterno, e questo può alimentare dei dibattiti molto salutari all’interno della comunità LGBTQIA+ e transfemminista.

Ma le modalità con cui questa ricerca, questa messa in discussione avviene, purtroppo, non sono neutrali, perché la realtà in cui ci muoviamo, in senso più ampio, non è neutrale.

E abbiamo un sacco di prove del fatto che, parafrasando Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso, l’uomo sia descritto come l’essere umano standard e la donna come la femmina dell’essere umano.

(Fatto sta che quando le donne chiedono di essere trattate alla pari si crede che vogliano imitare gli uomini, o che per essere prese seriamente debbano aderire ai modelli comportamentali premiati dalla mascolinità tossica)

Quali subdole conseguenze può avere questo su tante, troppe persone transgender e/o enby che tentano in ottima fede di sfidare il binarismo di genere anche attraverso l’espressione di sé?

Che si adotti senza volerlo il maschile come standard entro cui valutare la rivoluzione ai diktat patriarcali. E al contempo che si giudichi la femminilità come qualcosa di meno serio, più sottomesso, meno rivoluzionario, o da riservare solo per scandalizzare, scioccare e “fare scena”, al posto di integrarlo veramente nella propria quotidianità.

E questo ad onta di attivistə straordinariə come Alok Vaid Menon, che del concetto di femminilità ha fatto il suo scudo, e l’ha rivendicato contro chiunque lo giudicasse frivolo e non professionale.

Questo ad onta delle persone transgender e/o non binarie che invece la femminilità (per come ci è stata raccontata e codificata dalla cultura in cui nasciamo) se la vivono bene, a prescindere da quanto l’abbiano poi incorporata o non incorporata nella propria espressione di genere.

Questo ad onta delle innumerevoli persone transgender e/o non binarie che hanno fatto riflessioni acute e profonde sull’argomento tenendo ben presente il contesto di partenza, e hanno parecchio da insegnare a qualunque persona cisgender sia abbastanza umile, femminista e disposta a informarsi.

Purtroppo c’è anche il sommerso di cui sto per scrivere. Evitare di affrontarlo non fa che renderlo più forte.

Cosa sappiamo sul contesto di partenza?

Ci sono miliardi di esempi che possiamo fare per dimostrare che ciò che la nostra cultura mainstream identifica come “maschile/appannaggio degli uomini nati XY” sia la norma e il “femminile/appannaggio delle donne nate XX” sia una sottocategoria, un qualcosa di “a parte” su cui favoleggiare, un extra rispetto alla norma:

Il maschile sovraesteso in italiano ma anche in altre lingue romanze, con tanto di donne professioniste che preferiscono farsi chiamare al maschile (direttore d’orchestra, signor presidente, Primo Ministro, eroe) “in maniera tale da puntare sui loro meriti e non sul loro genere” (cosa che implica che il maschile riguardi l’oggettività, il merito, il valore, e il femminile sia svilente, circoscritto, limitante, subdolamente anche un demerito);

Il fatto che tale esigenza di farsi chiamare al maschile per dare maggiore dignità al proprio merito sia condivisa anche da donne parlanti native di altri ceppi linguistici (germanico, slavo);

“Tutti gli uomini sono creati uguali”, “si muoveva a passo d’uomo”, “una città a misura d’uomo” e altre espressioni al posto di usare “umanità”, “esseri umani” o altri nomi collettivi;

Il fatto che il maschile sovraesteso sia così importante che lo si fa prevalere anche per parlare di un gruppo con 1000 donne e 1 solo uomo, e che l’unico modo per avere il femminile senza se e senza ma sia per parlare di un gruppo composto da sole donne;

Nell’editoria e nelle librerie, definire “letteratura al femminile/in rosa/chick lit” solo quella sentimentale, e nelle proposte di narrativa circoscrivere i romanzi scritti da autrici solo alla “letteratura delle donne”, mentre gli uomini sono autorizzati a parlare di tutto, a rappresentare tutto, a rivolgersi a tuttə;

Il ricorrere a pseudonimi maschili per secoli, da parte delle autrici, per parlare di tematiche ritenute sconvenienti per loro ma adattissime agli uomini (di fatto, la maggior parte delle tematiche – persino negli anni Novanta Joanne Rowling ha dovuto rendere il suo nome “neutrale” su richiesta della casa editrice, e da allora è stata conosciuta come J. K. Rowling);

L’ottima analisi di Carolina Criado Perez nel libro Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano, tradotto da Carla Palmieri e pubblicato da Einaudi nel 2020, che dimostra che tutto il nostro mondo privilegi le esigenze degli uomini cisgender (le risposte delle donne e altre soggettività nate XX escluse dai sondaggi e dalle statistiche “per amor di semplificazione”, i sistemi di riscaldamento e aria condizionata negli uffici tarati sul metabolismo maschile, i manichini per i test contro gli incidenti automobilistici costruiti secondo la corporatura, il peso e le fattezze degli uomini cisgender) e metta in mezzo quelle di altre categorie umane solo quando se lo ricorda;

Il femminile che viene formato a partire dal maschile in tante lingue: un esempio è Ish-a, “donna”, che viene da Ish, “uomo”, in ebraico, oppure “in” da aggiungere in tedesco per ricavare il femminile di una professione “neutra” (e dunque “maschile”);

Persino in Esperanto, lingua creata perché fosse ausiliaria internazionale, tutti i sostantivi sono di base maschili, e per creare il femminile c’è bisogno di aggiungere un suffisso (-ino);

Il fatto che la maggior parte dei nomi gender neutral in inglese (Jordan, Taylor, Lee, Cameron) erano originariamente maschili;

Il fatto che questo valga anche per i soprannomi (Chris, Alex, Sam sono partiti da Christopher, Alexander, Samuel, e non da Christine, Alexandra e Samantha);

Il fatto che la moda “unisex” sia costruita imitando maggiormente quella maschile rispetto a quella femminile, sia nei colori (che sono più sobri e decorosi come secondo il binarismo di genere si confà al genere maschile) sia nella forma sia nelle fantasie;

Il fatto che vestiti e gonne in Occidente siano appannaggio del genere femminile, con l’unica eccezione del kilt, e questo si ripercuota anche nei simboli più banali del mondo (come per la toilette, dove la figura per il bagno degli uomini è un omino secco e privo di attributi, mentre per il bagno delle donne ci sia lo stesso omino con una gonna);

Il fatto che persino “omino” sia ritenuto gender neutral per parlare di simboletti vari ed eventuali (!);

In quasi tutti i personaggi fittizi basati su forme e oggetti (come in Pac-Man) il personaggio senza nessun attributo particolare è percepito come maschile – e spesse volte lo è pure canonicamente! –, mentre per crearne la versione femminile e far capire al pubblico che lo sia bisogna aggiungere al personaggio di partenza ciglia lunghe, rossetto e talvolta persino i capelli;

Dare per scontato che qualunque animale si incontri sia un maschio e parlare di quell’animale al maschile a meno di non aver notato un collare rosa o i genitali femminili;

Il fatto che, ancora oggi, una neonata vestita con qualunque colore non susciti nessuna reazione forte, ma un neonato vestito di rosa susciti repulsione;

Usare espressioni come “quote rosa, finalmente il fantasy si tinge di rosa” per parlare di partecipazione di persone con un’identità di genere femminile, mentre il resto dei colori (e non solo il blu) dovrebbe valere per gli uomini;

La stessa cosa vale per i giocattoli, come il famoso esempio del telescopio nero per chiunque e del telescopio rosa per le bambine, oppure dei libri sulle “razze di cani” per i bambini e i libri “sui cagnolini” per le bambine;

Il fatto che, se per esigenze di contratto le aziende produttrici di giocattoli devono mettere una sola figura di riferimento sulla confezione di un prodotto adatto a tutti i generi, sceglieranno un ragazzino, oppure il pubblico darà per scontato che il prodotto sia adatto solo alle ragazzine;

Il fatto che ancora oggi la maggior parte dei cartoni animati targetizzati in modo trasversale al genere abbia protagonisti maschili, e se ci sono protagoniste esse dovranno avere un’espressione di genere molto stereotipicamente mascolina e “avventurosa”, magari pure un nickname maschile, per essere allettanti in modo trasversale;

Il fatto che per lungo tempo l’essere di genere femminile sia stato l’unico tratto distintivo dei personaggi femminili o almeno quello più importante, e che i personaggi femminili di solito siano stati in minoranza rispetto a quelli maschili (come Puffetta nei Puffi fino a poco tempo fa, oppure Beverly Marsh nella Banda dei Perdenti di IT di Stephen King);

Il fatto che, secondo vari studi ripresi anche da Rebecca Solnit, in un gruppo di 100 persone, di cui 50 donne e 50 uomini, si percepisca che ci siano troppe donne, ma si ritenga bilanciato un gruppo di 30 donne e 70 uomini (allo stesso modo, se donne e uomini parlano lo stesso ammontare di minuti, si ritiene che la conversazione sia “dominata dalle donne” – per tacere di quanto queste ultime vengano interrotte ben più spesso degli uomini);

Nella mitologia abramitica viene detto che gli angeli siano privi di sesso, il che in una prospettiva che non lo separa dal genere significa anche gender neutral, eppure i loro nomi sono tutti maschili (Michele, Gabriele ecc. ecc.)

Una pacca sulla spalla con tanta solidarietà alle persone non binarie che sono arrivate a leggere fin qui – ma per la verità a chiunque abbia a cuore lo scardinare il binarismo di genere dalla società. È stata dura anche per me scriverlo, davvero.

Il punto è che il nostro immaginario come persone queer e transfemministe si è nutrito per molto tempo di codici, simboli, favole, sogni, creature immaginarie, creature reali, lingue, opere letterarie, stereotipi di genere, leggende, fatti di cronaca, giochi, professioni che riverberavano dello stesso identico concetto: il maschile è generico, chiarissimo, adulto, affidabile e adatto a chiunque, il femminile è qualcosa di a parte, misterioso, specifico, immaturo e adatto solo alle donne.

Cosa ha scatenato nella comunità che più di qualunque altra ha dimostrato che l’equazione sesso = genere sia una stupidaggine?

L’impasse in cui rinchiudiamo le donne transgender

Una delle prime minoranze che ne viene solo danneggiata è sicuramente quella delle donne transgender, soprattutto quelle binarie.

Come se vivere in un mondo che invalida la loro identità di genere non fosse abbastanza, è dimostrabile che vengono accusate in continuazione – non solo dalle TERF purtroppo – di avere una fissa impellente di essere ancora più stereotipicamente femminili delle donne cis etero, e che con la loro espressione di genere starebbero “scimmiottando” e “caricaturizzando” l’essere donna.

Tuttavia, le donne trans che optano per un’espressione di genere più androgina sono comunque prese di mira! Il loro non conformarsi agli standard imperanti sulla femminilità viene assurto a “prova” del fatto che sarebbero uomini che si spacciano per donne.

È un conflitto che le donne trans non possono vincere in alcun modo: da loro, la femminilità è qualcosa che simultaneamente si pretende e si disprezza.

O un requisito che a momenti viene reso indispensabile solo per trovarvi dei difetti e invalidarlo.

E anche solo per questa aspettativa carica di preconcetti, disprezzo e problemi con la femminilità mai affrontati, tutte loro avrebbero il diritto di mandare a quel paese chi la avalla.

La vergogna che induciamo negli uomini transgender

Tutt’altra storia è quella sperimentata dagli uomini transgender, binari in particolare.

Dal momento in cui hanno accesso a un percorso di transizione “classico”, assumono un aspetto e un’espressione di genere codificati come virili, e riescono ad avere la rettifica anagrafica, spesso hanno il privilegio di mimetizzarsi tra la folla e raggiungere un equilibrio – oltre ad avere accesso ai privilegi maschili essendo trattati meglio nelle relazioni sociali e professionali, come dimostra l’analisi di Kristen Schilt contenuta nel libro Just One Of The Guys? Transgender Men and the Persistence of Gender Inequality.

Un po’ per questo, un po’ per il sentirsi da meno rispetto agli uomini cisgender cresciuti a pane e culto del machismo, non pochi uomini trans durante e dopo il percorso di transizione cominciano a prendere inorriditi le distanze da tutto ciò che vagamente ricordi loro l’essere donne, e a trattarlo con un fortissimo disprezzo.

Come ho già scritto sul blog di FtM Italia/Voloversolavita2012 con il mio ex, Massimo Tiberio B., e come ho ripetuto nel libro in crowdfunding Volo Verso La Vita del 2016:

“E così quelli che diventano aggressivi e sprezzanti verso le donne, in realtà sono ostili anche verso se stessi, e verso tutte quelle parti di se stessi che non considerano “abbastanza maschili” secondo standard imposti dalla società.”

È anche per questo che ci sono state parecchie polemiche nella comunità degli uomini queer quando Dany Enjoy nel 2015 andò a The Voice e disse di volere una figura femminile a guidarlo durante il programma, preferendo lo stare in squadra con Noemi rispetto agli altri giudici, perché durante il percorso che stava affrontando non voleva smettere di essere in stretto contatto con una sensibilità tipica delle donne.

Non è stato solo per la legittima domanda di decostruzione dell’essenzialismo di genere in stile “Cosa significa sensibilità femminile? Perché la sensibilità dovrebbe avere un genere?”.

È stato anche perché gli uomini trans vengono incalzati a sbarazzarsi il prima possibile di ciò che la nostra cultura definisce “femminile/appannaggio delle donne”, a dire per forza di essersi sempre sentiti estranei a quel mondo, e guai a loro se osano volerlo esplorare anche quando stanno rivendicando la loro appartenenza al genere maschile.

Un uomo trans che per sentirsi valido come tale non si vergognava di restare vicino a delle figure femminili, e anzi dichiarava di averne comunque bisogno proprio per il suo equilibrio, scatenava un oltraggio enorme in alcuni ragazzi che ancora non avevano messo abbastanza in discussione il patriarcato.

Pescando a mani basse sempre dall’articolo succitato:

“In questo modo corrono il rischio di passare da una gabbia all’altra: dalla gabbia della femminilità in cui molti si reprimevano prima di capire se stessi, che magari impediva ad alcuni di loro che amavano lo sport di giocare al calcio perché “non sta bene per una signorina”, alla gabbia della virilità, in cui alcuni si sentono costretti a rinchiudersi per rimarcare a tutti i costi di essere “veri uomini”, che magari impedisce a quelli che amano ballare, dipingere, cucinare o fare shopping di sfogare le loro passioni perché “sono per femminucce.”

Ma considerarci “femminucce”, “macho”, “signorine” e “veri uomini” ci fa perdere di vista quello che è vero per noi stessi. Ci puntiamo il dito contro da soli, ci giudichiamo, ed è come passare dal farsi bastonare al farsi frustare, ossia l’esatto opposto della libertà.

Il percorso di transizione può anche darci l’occasione di comprendere tutti e due i mondi (femminile e maschile) e di avere una sicurezza in più. Possiamo essere più autentici, invece di ricadere in un altro stereotipo per paura di non essere abbastanza. Non dovrebbe portarci a scordarci di noi stessi e vivere in un personaggio che sia la caricatura di un uomo, ma a diventare noi stessi, ossia esseri umani che sono anche uomini, e che hanno tutto il diritto di capire da soli cosa significa per ognuno di noi essere uomini ed essere persone vere. Il percorso di transizione dovrebbe portare ogni ragazzo trans a vedere il mondo con colori più ricchi, più nitidi, più forti, più belli, non a cancellarne alcuni dal proprio naturale modo di essere. Altrimenti come si fa ad essere completi, come si fa a capire delle cose in più, come si fa a sentirsi migliori, e come si fa ad essere davvero felici invece di avere un’illusione di felicità?”

I bias verso le persone Femmes

Il binarismo di genere è una gerarchia direttamente collegata all’oppressione di tante soggettività, soprattutto di quelle che a qualunque titolo si identificano come Femmes.

La qual cosa conduce, in alcuni casi, a non avere pace né dentro né fuori dalla comunità LGBTQIA+.

È stato dimostrato in diversi studi con focus sulla femmephobia in ambienti queer, studi con relativa ricchissima bibliografia che non cito solo per mancanza di spazio, che avere un’espressione di genere femminile conduce a una notevole intersezione di discriminazioni (concetto denominato da Hoskin femininity as target), che non risparmiano neppure i cervelli delle persone queer, ma anzi li plasmano in un modo che fa solo il gioco del patriarcato.

Facciamo una precisazione cruciale. Secondo l’avvocata, attivista e autrice Katie Tastrom, “Femme”, per definizione, è un termine ombrello sotto il quale rientrano tutte le persone che danno priorità, si sentono più a loro agio, hanno una preferenza per l’incarnare molti elementi che la nostra cultura di partenza definisce femminili. Alcune persone Femmes sono donne, altre sono uomini, altre ancora non binarie e/o fluide nella loro identità di genere, altre ancora si definiscono solo “Femmes”. Sebbene il termine originariamente indicasse solo un’espressione di genere molto femminile all’interno della comunità saffica, e fosse in contrapposizione con “Butch”, si è allargato a includere altro già da molto tempo. Il che viene confermato anche dagli studi succitati.

Questo significa che i problemi irrisolti con la femminilità di una grande fetta della comunità queer fanno del male, inevitabilmente, anche alle persone non binarie.

Proprio per non farci mancare nulla!

Conclusioni

Se si è persone transgender e/o enby vissute in Occidente e in particolar modo in Italia è impossibile disinteressarsi del tutto della questione. Anche se si avrebbe tutto il diritto di farlo, con la propria stessa esistenza si mettono in discussione granitiche certezze del patriarcato, della cisnormatività, del binarismo di genere. L’atto stesso di scoprirsi transgender e/o non binary significa andare contro la norma e sviluppare una cultura delle diversità, qualunque cosa si scelga di fare dopo essersi riconosciutə e accettatə.

Ecco perché bisogna tracciare una differenza tra le sacrosante scelte individuali di autodeterminazione e il discorso di fondo e collettivo contenuto in questo articolo.

Una persona trans ha tutto il diritto di mimetizzarsi nella folla presentandosi solo come “uomo” o “donna” senza ulteriori specificazioni, perché sa che la propria verità personale sia quella.

Una persona trans ha tutto il diritto di sentirsi comunque portatrice/portatore/portatorə di una differenza rispetto all’esperienza cisgender, e di rivendicarla parlandone con la comunità queer e transfemminista oppure anche al di fuori.

Una persona trans ha tutto il diritto di perseguire il corpo che desidera avere, trovare l’espressione di genere in cui si sente più a proprio agio, scegliere per sé le modalità con cui autodeterminarsi.

Una persona trans ha tutto il diritto di lottare anche per la sua comunità portando avanti una riflessione sul non binarismo di genere oppure di farsi i fatti propri/contribuire alla collettività T in altri modi.

Tutte queste cose sono validissime, ma non cambiano una verità fondamentale: il miglioramento delle condizioni in cui versa una collettività intera deriva anche dalla riflessione, dall’autoconsapevolezza e dalla consapevolezza della propria comunità di appartenenza (dei suoi codici, dei suoi simboli, delle sue leggi non scritte, dei suoi automatismi).

Nulla di tutto ciò può nascere senza tenere conto del contesto ostile da cui, per reazione o imitazione, scaturiscono tali codici, simboli, leggi non scritte, automatismi.

Il contesto di partenza a cui giustamente ci ribelliamo, quello patriarcale, disprezza tutta una serie di modalità espressive, emozioni, sentimenti, modus pensandi e operandi, capi d’abbigliamento, stili comunicativi che ritiene appannaggio del genere femminile.

Se ci si rifiuta di ammetterlo e non si indaga sul modo in cui il patriarcato ci ha influenzato, a un livello sottile continuerà a farlo.

Se non ci si chiede quale sia il proprio rapporto con la femminilità/mascolinità/androginia, si porteranno avanti senza volerlo gli stereotipi della maggioranza ostile.

E questo porterà a delle ferite non sanate, che sanguineranno addosso a chi non ci ha fatto nulla ma non aderisce agli schematismi stereotipati che ancora abbiamo in testa.

E, sì, anche le reazioni agli schematismi stereotipati che non ne abbiano tenuto conto, e si siano sviluppate mal sopportando un eccesso di autoriflessione, saranno intrise in una certa misura degli stessi preconcetti.

In questo modo una rivoluzione che davvero abbracci lo spettro intero dell’essere umano non sarà possibile.

Per averla, averla veramente, io credo sia imperativo mettere in discussione il nostro concetto di androginia, standard, neutralità dell’essere umano.

Chiederci anche del nostro concetto di “unisex”, o che sfugga in senso stretto dalla gabbia del binarismo di genere.

Scoprire quanto vada a braccetto più spesso che no con la mascolinità.

Verificare se sia vero che, davanti a episodi di discriminazione ai danni delle persone Femme, tendiamo ad attribuire almeno in parte la responsabilità a loro, perché il loro modo di essere ci appare più frivolo, infantile, debole o bisognoso di protezione, e soprattutto meno rivoluzionario di uno mascolino.

Comprendere quanto, per reazione, conduca a un modo molto rigido di riservare uno spazio alla femminilità nell’espressione di sé (un modo che può calzare a pennello ad alcune soggettività ma certamente non è adatto a tutte).

Capire quanto condiziona, fa vergognare, discrimina e ancora umilia fin troppe persone transgender e/o non binarie che si sentono incalzate a conformarsi o a reprimersi dopo anni interi passati a farlo nel mondo ciseteronormato.

Ascoltare le esperienze delle persone transgender ed enby che vi hanno avuto a che fare e hanno sofferto per la mancanza di volontà di scendervi a patti di un’altra fetta del mondo queer.

Solo allora, secondo me, costruiremo degli spazi davvero più sicuri.

E solo allora avremo un’altra, profondissima ragione per affermare che tutte le manifestazioni dell’essere siano le benvenute nei contesti che si ribellano all’influenza patriarcale.

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