Nel 2018 è uscita per Channel 4, senza troppo clamore qui da noi, la serie TV comedy drama The Bisexual, diretta dalla regista americano-iraniana Desiree Akhavan. Le sole sei puntate della prima stagione (e a oggi l’unica), disponibili su Hulu e quasi irreperibili in Italia, sono state pregne di significato per la sottoscritta, che le ha viste da cima a fondo riflettendo parecchio durante. Cercherò di comunicarne tanto col minor numero di spoiler possibile.
Trama e personaggi
La premessa è presto detta: una trentenne bisessuale americano-iraniana, da tempo espatriata a Londra, ha una relazione sia romantica sia lavorativa con Sadie, quarantenne britannica lesbica, amorevole e sicura di sé. Sebbene sia ormai consolidata da tempo, tanto che Sadie sarebbe pronta al passo “successivo” (vale a dire il matrimonio monogamo con prole, nella sua visione delle cose), Leila sta ormai da tempo vacillando. La lascia, pur amandola e volendo continuare a essere socia in affari, perché ha bisogno di scoprire se stessa ed esplorare tutti i lati di sé che ancora non ha conosciuto – incluso il suo orientamento sessuale.
È così che va a condividere un appartamento con Gabe, scrittore irlandese ed eterosessuale famoso per un unico libro di successo venduto anni prima, e adesso professore incapace di dare vita a qualcos’altro di valido, succube di una sorella che gli fa da madre e attratto dall’unica persona che fin da subito capiamo sia destinata a farlo solo soffrire: Francisca, giovane studentessa latina, queer e molto cinica, che ritiene di dire le cose come stanno e di fatto ne dice di grosse con un distacco impressionante.
A queste figure vanno aggiunte: Deniz, negoziante britannica di origine iraniana, lesbica e che conosce Leila da quando è arrivata nel Regno Unito, quando a malapena ventenni e desiderose di esplorarsi più liberamente sono diventate migliori amiche; la sorella di Gabe, tanto carina, sollecita e comprensiva quanto depressa e incapace di mollare il controllo malsano e pieno di sensi di colpa indotti che ha su di lui; il team di Sadie e Leila sul lavoro, di imprenditrici e nuove reclute smaniose di emanciparsi; e innumerevoli nuove e vecchie conoscenze con cui la nostra protagonista verrà in contatto.
La recitazione dell3 attor3 è naturale e non forzata, sono convincenti nelle emozioni che mostrano. E sebbene la regista abbia l’occhio lungo sui suoi personaggi non è mai né troppo distante (in modo da non farci interessare a loro) né troppo nella loro testa (con un coinvolgimento viscerale che tradirebbe una prospettiva molto personale). Abbiamo spazio per immedesimarci, ma anche per empatizzare laddove non ci riconoscessimo. E a cominciare dal titolo, che tradisce molte aspettative su Leila, la regista ha fatto una scelta che avrebbe alienato una grande fetta di pubblico: cercare di spingerci a pensare che andrà in una certa direzione per poi portarci altrove. Personalmente apprezzo tanto quando si fa così, e questo è ancora più evidente quando si parla dei suoi personaggi.
Nessuno di quelli principali, tanto per cominciare, è come sembra.
Non lo è Deniz, l’amica di una vita di cui Leila teme e valuta smisuratamente il giudizio – con quella resting bitch face, quel corpo imponente così lontano dagli standard di bellezza occidentali e comunque così diretta, sicura di sé, all’apparenza molto risolta ed emancipata. Si potrebbe pensare che sia la roccia di Leila, e invece la risposta è “sì e no” al contempo. Perché Deniz è anche rigida e inflessibile nella sua visione del mondo, che porta avanti con la convinzione di una lesbica talvolta dura e pura, riuscendo a essere al contempo dalla parte della ragione e del torto. Inoltre, per tutto lo show la vediamo ambivalente nei confronti della famiglia d’origine, mentre tradisce il senso di responsabilità profonda e di voglia di fuga dalle imposizioni della cultura familiare d’origine che sperimentano tante persone razializzate, mixed race e/o di seconda generazione.
Non lo è Sadie, la donna all’apparenza perfetta, l’imprenditrice di successo, quella che ti darebbe il mondo, a cominciare dal senso di stabilità, affetto, certezze, appartenenza che è sembrato mancarti per un pezzo. Perché Sadie è anche una quarantenne che ha fretta di realizzare la sua visione dell’esistenza ideale, con una conoscenza profonda dei suoi bisogni e desideri che manca a Leila – quella che è stata presa sotto la sua ala protettrice e che, sebbene si sia sperimentata tantissimo nell’amore per lei, aveva tanto di se stessa ancora da scoprire. È evidente: nella coppia era Sadie quella con meno da perdere, e per questo è difficile non appoggiare la scelta di Leila di andarsene per comprendere chi sia. Magari avrebbe scoperto di aver bisogno di tutt’altro se la loro storia (monogama) non fosse durata tanto. O magari avrebbe scoperto che non poteva fare a meno di lei. Entrambe le possibilità verranno esplorate quando si lasceranno. E in tutto questo scopriremo che Sadie abbia anche un cruccio segreto che renderà semi impossibile realizzare la vita che vorrebbe per se stessa, esattamente come la vorrebbe. Quanto sia risolta e quanto sia irrisolta, quanto sia infantile nell’attaccamento a quella visione e quanto sia in effetti matura e consapevole, questa donna presentataci come straordinaria (sia dall’entourage professionale sia a volte da Leila) dipende dall’occhio di chi guarda.
Non è come sembra neppure Gabe, che… lo ammetto, temevo sarebbe stato un cishet stereotipato e con lo sguardo voyeuristico, la classica figura rassicurante per un pubblico ciseteronormativo, che avrebbe potuto esplorare grazie alla sua coinquilina il mondo saffico e appagare le proprie fantasie. Mi aspettavo un bro che le strizzava l’occhio complice, oppure un coprotagonista timido e onnipresente, al quale ne capitavano di ogni nel mondo saffico a cui sarebbe stato continuamente esposto. Ma Desiree Akhavan è una regista troppo intelligente per cascare in quella trappola, e così ci presenta un personaggio abituato al rifiuto per altre vie: le origini irlandesi, il carattere schivo, le difficoltà con le donne, le situazioni in cui continua a non ficcarsi per la sua paralisi sia come professionista sia come fratello sia come essere umano. È socialmente inetto e non si riconosce abbastanza qualità, per questo finisce in relazioni dove viene trattato male e ottiene meno di quanto non sarebbe disposto a dare – alle persone giuste, che invece giuste non sono. Non conosce se stesso quanto vorrebbe dare a vedere e non è il campione che spererebbe di essere, e la cosa viene mostrata sia con ironia sia con quieta disperazione. Desiree Akhavan gli ha fatto percorrere apposta la via della mascolinità tossica (quella che lo fa inorridire se vede i peli su ascelle femminili) per fargli sbattere il muso contro e farsi molto male. E grazie al cielo, a parte una serata in cui Leila se lo porta appresso nel circolino lesbico, e lui ha modo di fare esternazioni desolanti come “Cosa ne pensate di La vita di Adèle, ritenete sia una rappresentazione realistica del lesbismo?” e “Che misandria!”, il mondo saffico LO ESPLORA POCHISSIMO – e solo attraverso i racconti su se stessa di Leila. Quest’uomo che si sente un bambinone benedetto da un unico colpo di fortuna non sarà forse molto amabile, ma tra qualche slancio di saggezza e generosità e qualche opportunità colta al volo non si può manco odiare. Emerge anche che sia stato caratterizzato con tanta consapevolezza e tanto amore: sarà perché la regista s’è ispirata a suo fratello, diverso da lei e comunque impossibile da ignorare.
Leila si muove, confronta e interagisce soprattutto con loro tre, scoprendo che abbiano i loro difetti, le loro debolezze, i loro limiti, e tuttavia non riuscendo a fare pace neanche con i propri. Emblematica in tal senso è la scena in cui attraverso un flashback vediamo il primo incontro con Sadie, e Leila deve spiegarle della cultura iraniana. Le parla di quanto sia comune svicolare nelle conversazioni quotidiane, e fingere di intendere tutt’altro nella speranza che la persona davanti a sé capisca il vero significato – e Sadie commenta un po’ stuzzicata un po’ curiosa un po’ maliziosa che “allora non ci sia da fidarsi di Leila”. Ironia della sorte, è proprio ciò che Leila pensa di se stessa, e deve abituarsi a metterlo in discussione. Come potrebbe essere diretta, onesta, lineare nei ragionamenti, se da varie fonti (sia quelle salvifiche sia quelle tossiche) le è stato negato di esprimersi per quella che è? E chi è, lei? Riuscirà a trovare la risposta?
Grazie al cielo sono personaggi caratterizzati tutti in maniera abbastanza umana da non far venire voglia di prenderli a schiaffi, anche se neppure li si abbraccerebbe ogni tre per due. Interessano tanto da voler rimanere attaccat3 a loro, ma senza troppa enfasi. Un tratto distintivo della regista.
Vorrei solo spendere due parole negative per una dipendente di Sadie e Leila. È una delle ultime Millennials, quasi Gen Z (mentre Leila è una delle prime Millennials), ma viene trattata come una ragazzina stupida e insulsa, dalle opinioni piuttosto scontate, noiose e pretestuose sul femminismo, disprezzabile perché si sforza troppo e perché ci tiene all’opinione e all’approvazione delle donne più grandi. Con lei sembra che non valgano né le sfaccettature mostrate per altri personaggi né una resa davvero a 360 gradi, e il massimo in cui può sperare è un sorriso di circostanza e un incoraggiamento fasullo. Non a caso, i personaggi davvero ben caratterizzati oltre lo stereotipo rimangono di stucco nel sapere che tra le “ragazzine” (con molte virgolette) della sua generazione lei sia una podcaster di successo. Mi ha ricordato Maya di Crazy Ex-Girlfriend, e se devo vedere ancora questo trend in prodotti anche di qualità ma nei quali il conflitto generazionale è così forte da non avere sensibilità per questa generazione strillo.
Il contesto britannico, la comunità queer e la catarsi che ne è derivata
Il bello è che The Bisexual non doveva manco essere ambientata a Londra. Desiree Akhavan ha detto di averla ideata inizialmente per delle emittenti degli USA, quando era ancora a New York, e solo dopo di averla proposta a quelle britanniche, trovando chi accettasse. Forse è stata la cosa migliore, perché abbiamo evitato l’ennesimo sguardo stereotipato sulla cultura del Regno Unito, fatta di tè, paesini dalle stradine acciottolate e un conservatorismo che appartiene solo a una fetta della popolazione ma viene esteso senza pietà a tutte. Nel cambiare solo la location, regista e personaggio hanno mantenuto intatta la storia e i suoi significati, e hanno avuto un’occasione in più di riflettere su cosa significhi essere una minoranza – in questo caso l’unica attrice americano-iraniana che finge di essere un’americano-iraniana trapiantata a Londra.
Ecco perché, sebbene la serie sia stata lodata per l’umorismo “britannico”, vista la scarsa premeditazione io lo riterrei più “anglosassone”, accorpando sia USA che UK. L’ironia, cavallo di battaglia della serie TV, ha caratteristiche che la rendono un misto di entrambi i Paesi: asciutta, cupa, sarcastica, sagace senza assumere toni eccessivi o gridati. Non è né crassa e malevola come potrebbe essere quella di un Ricky Gervais né troppo elegante e introversa, incapace di farti sentire che ti stia di fatto prendendo in giro, come accade con alcune forme dell’umorismo britannico. È un preciso filone che appartiene a entrambi i Paesi, all’interno dei vari e sfaccettati tipi di humour del contesto anglofono.
La Londra mostrata da The Bisexual peraltro è moderna e multietnica, fatta di strade trafficate, locali notturni, cibo iraniano, neppure troppo alcool, interni di uffici eleganti e case in cui i personaggi danno il meglio e il peggio di sé. Un modo di raccontarla abbastanza impersonale, che gioca su quanto abbia in comune con essa ma non approfondisce inutilmente o senza averne merito.
Molto più gustoso e visto nel dettaglio è invece il modo in cui è stato rappresentato il circolino lesbico, al quale Leila sente di appartenere e non appartenere al contempo. Certo, è stato la sua casa per tanti anni, ne conosce le regole, le convenzioni, le offese percepite, le potenzialità della sorellanza e i limiti della scarsità di ricambio con contesti e relazioni altre. Viene sia difeso dalle incursioni dei cishet ignoranti (“Le tue amiche si definiscono lesbiche perché si baciano quando sono ubriache e in mezzo agli uomini, o quando sono da sole e sobrie?”) sia criticato per le meschinità, le vendette di poco conto, i pettegolezzi, le pugnalate e la cappa soffocante che la protagonista percepisce, quando ha fatto numerosi tentativi di aderirvi senza che fosse del tutto suo, e si ritrova a non poter più fare finta che quel modo di operare le basti.
Desiree Akhavan si è chiesta (e probabilmente è la stessa domanda che si fa Leila) cosa sarebbe accaduto se all’età in cui Leila si è innamorata di Sadie lei non si fosse innamorata di un uomo, quanto tempo ci avrebbe messo nel dichiarare almeno a se stessa di essere bi. Ha parlato di quanto le facesse paura prenderne atto in un contesto queerfobo, e cosa significhi essere nell’armadio su più fronti, quello ciseteronormativo di massa/della famiglia d’origine e quello gay e lesbico cisgender, pieno di identità chiuse e altrettante granitiche certezze tipiche di una ribellione cristallizzata.
Nella ricerca della dimensione di Leila, nell’unica esplorazione di Gabe di un locale queer, nelle interazioni tra i personaggi saffici in ogni episodio, la regista ha messo in scena il meglio e il peggio di tante persone queer che abbia conosciuto. Le ha definite vicende molto personali, accadute a lei o ad alcun3 collaborator3, e ha detto di essersi sentita nuda nello sviscerarlo fino a questo punto. Io ho ritrovato dinamiche tipiche anche dell’Italia e ho avuto modo di pensare a cosa significhi garantire a tutt3 una comunità sicura. E ho davvero amato quanto, partendo dal particolare, lei abbia costruito delle storie universali. La rappresentazione conta.
Le scene di sesso
Un plauso a come siano state girate. Desiree Akhavan non è nuova a inquadrature mantenute a lungo (al posto di tanti stacchi e riprese da tutte le angolature), in cui i personaggi si parlano ed agiscono al contempo, in cui c’è spazio per nudità e esplicitazione ma anche a quel tanto di pudore che basta a non scadere mai nel voyeurismo. Ci sono momenti imbarazzanti, défaillances, intimità, entusiasmo, noia, coinvolgimento da parte di una delle persone più alto di quello di un’altra parte… e c’è una delicatezza di fondo che merita di essere citata.
Non sembra mai di essere nei suoi personaggi perché assumiamo il loro punto di vista. Sembra di essere in loro perché sappiamo come si sentono ed è facile immedesimarsi.
Un punto di vista rivoluzionario, con un trend di serie TV che ci hanno abituato a veder mostrato il sesso in modo molto patinato (e idealizzato), in modo comico (ed eccessivamente grossolano, poco poetico e pure un po’ desolante nella ricerca spasmodica della situazione imbarazzante), oppure di recente in modo molto crudo e chirurgico (dissezionando soprattutto i corpi femminili, con la pretesa di essere “realistico”).
In questa serie TV si capisce benissimo quanto il sesso non sia per forza un filler: nessuna scena è gratuita, eppure in alcuni episodi ce ne sono parecchie. Non serve a titillarci, disgustarci, farci innamorare di una coppia, ridere dell’imbranataggine di chi osserviamo, sentirci meglio o peggio a seconda di quanto ci identifichiamo nelle persone coinvolte. Serve sempre e comunque a raccontare una storia, e a mostrare qualcosa in più dei personaggi e del loro arco narrativo.
Alcune scene mi hanno intenerito, fatto sorridere e/o fatto dispiacere o cringeare per i personaggi. E senza scendere nel merito di quali pratiche siano mostrate e quali no, per i sentimenti e le situazioni è il sesso che facciamo noi.
Ho poi particolarmente apprezzato la parte in cui Leila constata che fare sesso con gli uomini (qui intesi come quelli cisgender) non sia poi così diverso da fare sesso con le donne (anch’esse cisgender). Nessuna delle epifanie che si aspettava, quanto piuttosto la fluidità, la soggettività e l’unicità che si sperimenta in modo variabile tra persona e persona.
Desiree Akhavan ha dichiarato di essere cresciuta con prodotti audiovisivi che punivano le donne per il loro desiderio (espressione di potere e autoaffermazione femminili) e di essere stata molto a disagio quando ha fatto confronti con ciò che vedeva rappresentato e la realtà delle sue esperienze. Per questo ritiene essenziale parlare bene del sesso. Quando Leila descrive il modo in cui si sforza di far capitare situazioni in cui possa farlo, e quanto dopo diventi così performativo che vorrebbe solo farla finita, ho avuto una stretta al cuore, anche se non mi riguarda e anche se non riguarda Deniz che stava accogliendo la confidenza: quante donne si sentono così, in un mondo che le ritiene deplorevoli per averne bisogno?
Ecco perché è del tutto vero che questa sia la storia di una donna che cerca di darsi il permesso di provare piacere, e non mentire o scendere a compromessi rispetto a ciò che comporta.
E naturalmente, il Male Gaze è assente (o quantomeno se non me ne fossi accorta è scarsissimo), ma in compenso abbiamo tanto Female e Queer Gaze su corpi maschili e femminili.
La sensibilità di Desiree Akhavan
Nelle mani di un’altra, un personaggio come Leila – ma anche come Gabe, come Deniz, come Francisca –, se colto nei momenti in cui è a terra e al suo peggio, avrebbe potuto risultare miserevole e patetico. Se colto nei momenti in cui ha avuto una vendetta o una soddisfazione egoica, avrebbe potuto risultare arrogante e odioso. E come conseguenza, se colto nei momenti in cui si mostra generoso, capace di introspezione e gesti ammirevoli come lottare per affermare la sua onestà e far sapere alle persone giuste che loro valgano la pena, avrebbe potuto generare comunque distanza, e al pubblico sarebbe potuto non fregare nulla di vederla trionfare.
Se non è successo, e un po’ di tifo per Leila lo si fa di episodio in episodio, è solo merito dell’intelligenza con cui è stata caratterizzata e con cui sono state mostrate le sue vicende.
Desiree Akhavan riesce a esprimere la verità dei suoi personaggi dirigendone l3 interpreti con realismo, mostrandone i segreti, le contraddizioni, le ingenuità, le cose che si tengono nascoste a vicenda, ma anche i momenti in cui sono del tutto capaci di connessione genuina, riflessività e chiarezza espositiva. Può farlo solo una regista con una comprensione molto profonda di cosa sia appartenere all’umanità.
Il suo stile è asciutto, secco, pulito, mai sopra le righe, del genere che se dovesse fare una battuta la farebbe arguta ma restando impassibile. E sebbene io abbia menzionato una parola (“realismo”) sovente scambiata per “crudezza, malevolenza e desolazione umana” da persone che cercano lo shock o il nichilismo a tutti i costi, lei non ci casca mai. Non è mai gratuitamente polemica o cattiva, e nelle modalità piane e lineari di raccontarci cosa stia succedendo ci fa empatizzare sia laddove ci riconosciamo sia laddove non ci riconosciamo nelle esperienze rappresentate.
Alcune persone potranno dire che sia una regista che non si sbilancia mai e che tiene molto basso il livello di conflitto dei personaggi. Io non sono d’accordo: trovo che nella sua pacatezza mostri situazioni potenzialmente molto conflittuali, solo che sono esperite nella vita quotidiana. Sì, è vero, non troverete zombie da sconfiggere o invasioni aliene, e non troverete neppure relazioni così pericolose che i personaggi sono a rischio di perdere la loro sanità mentale o la loro identità. Questo non significa che non ci siano conflitti significativi e che il modo di gestirli non possa fare la differenza. Forse la loro significatività sta nel fatto che siano situazioni affrontate da una grandissima fetta del genere umano. Anche quello che non viene adeguatamente rappresentato sullo schermo, se non in piccole produzioni di nicchia.
Potrei citare una frase che ho già sentito rivolgere (con ragione) a Francesca Archibugi, per parlare di Desiree Akhavan: la sua mise en scène è semplice, la sua visione delle cose tutt’altro.
La “sospensione” – o l’intersezionalità senza soluzione
Come attivista ritengo questo disclaimer cruciale, anche a costo di fare qualche minimo spoiler. È molto evidente che ci si trovi di fronte non a una edificante storia di formazione con rivendicazione della propria soggettività bisessuale, ma a uno spaccato di vita senza una vera risoluzione finale.
Non a caso, come già in La diseducazione di Cameron Post, la regista lascia in sospeso tantissime sottotrame e nessuno dei personaggi approda a un modo davvero più felice e libero di viversi ed esprimersi. Neppure nell’abbraccio finale sappiamo con certezza se ci sarà un’apertura al nuovo oppure sia soltanto un modo consolatorio di accettare la propria condizione sempre a metà, sempre nei margini. Ciò che è stato mostrato fino a quel momento, l’assenza di presa di posizione e le espressioni cupe e pensose possono far pensare alla seconda, anche se lascio a chi guarda la possibilità di giungere alle sue conclusioni… come immagino abbia fatto Desiree Akhavan.
Leila (come anche lei) sa benissimo cosa voglia dire sentirsi “straniera”, fare da equilibrista tra ben tre culture (quella iraniana d’origine, quella americana in cui è cresciuta e quella d’adozione per essersi trapiantata nel Regno Unito), e cosa significa non poter essere un “misto” di eterosessualità e omosessualità, ma qualcosa d’altro. La serie TV tratta tantissimo di minoranze nelle minoranze, di preconcetti, di difficoltà, di mutilazione di parti di sé ritenute inaccettabili, di gioie segrete, dell’impossibilità di trovare un contesto davvero adatto a sé e comprensivo, di cosa si provi a interiorizzare lo stigma di sé a forza di essere vista come una persona inaffidabile. E l’onestà con cui ci riesce è propria di una prospettiva femminista intersezionale, oltreché profondamente interna a queste dinamiche.
Tuttavia non c’è mai un salto in cui da sperimentazioni ed elucubrazioni la protagonista emerge più consapevole, reclamando la sua identità multisfaccettata come portatrice di ricchezza e complessità. Non smette di avere quella visione interiore sarcastica anche nei confronti di se stessa, e neppure la attenua. E anche quando viene a contatto con persone queer più giovani, cresciute con Internet e che vivono la scoperta e la definizione di sé in modo fluido e naturale, dice che lo rispetta ma lo sente – non senza una punta di invidia e rabbia – lontanissimo dalla sua esperienza, in cui lo “stile di vita gay” e lo “stile di vita etero” sono due mondi a parte e inconciliabili, e scegliendo l’uno si deve necessariamente sacrificare l’altro. Adesso farò lo spoiler più grande di tutti: ad onta del titolo, Leila non rivendicherà mai la parola “bisessuale” per definirsi, associandola sempre a qualcosa di sporco e promiscuo.
Da questa prospettiva capisco anche il perché non sia stato rinnovato: se lo scopo era quello di mostrare uno spaccato di vita, senza alcuna risoluzione finale, cos’altro c’era da dire?
In tal senso, The Bisexual termina dove altre serie TV hanno cominciato: c’è chi può pensare che, nel raccontare lo spaccato di vita di Leila e dei personaggi che le ruotano attorno, li abbia fatti solo incagliare e impantanare nel proprio conflitto irrisolto, e chi può pensare che la regista stessa sia stata sincera, non abbia proposto soluzioni miracolose e univoche, e abbia lasciato all’umanità guardante/guardata l’occasione di trovare le proprie.
A noi decidere cosa meritiamo, di cosa abbiamo bisogno. Dalla vita, così come da una serie TV.
Chi dovrebbe e chi non dovrebbe vederlo?
Consigliatissimo a chi ha voglia di serie TV che intrattengano facendo riflettere su cosa si provi a vivere nei margini. Anche a chi vuol vedere show sul femminismo intersezionale e sulla bisessualità, pieni di humour anglosassone, un cast di personaggi credibili e appartenenti a qualche minoranza, ai quali si può voler bene, e in cui tutte le emozioni rappresentate sono pacate e realistiche.
Decisamente sconsigliato a chi cerca un film “manifesto” sulla bisessualità in senso attivistico, e troverebbe un’opera del genere sottotono, spenta, o incapace di prendere posizione essendo davvero rivoluzionaria.
Di Desiree Akhavan, avendo apprezzato anche il suo precedente film e riconoscendo il suo tocco, personalmente non posso non pensare che fin dalla premessa abbia deciso di parlare della quotidianità vissuta da soggettività “diverse” (con molte virgolette perché mai come qui si vedono tanto umane, troppo umane), in una società che non sempre riesce a cogliere le risorse che si celano nella loro prospettiva. Le ha rappresentate meschine, fragili, vulnerabili, facili a far scattare l’identificazione, colte in momenti che di solito non si vedono negli show come questo, e non l’ha mai buttata in caciara o nel patinato, ma neppure con giudizi o esprimendo vere e proprie opinioni.
E nel pensarci mi vengono in mente le parole di Henry Miller in Tropico del Cancro, quando diceva che non avesse nulla da offrire al mondo, tranne la sua stessa confusione.
Ad alcune persone basterà, ad altre no. Del resto, sta a noi anche decidere cosa sia troppo e cosa sia troppo poco.
