Anche quest’anno è tempo di Pride. Eppure, con sempre maggiore forza degli anni passati, parecchie cose non tornano.
Non starò qui a sviscerare i problemi che ci portiamo appresso da troppo tempo, tipo la mancanza di accessibilità, che causa danni a chi è neurodivergente o disabile, come se non si sapesse immaginare altro format della parata sotto il sole cocente, con pochissimi punti di ristoro, scarsa attenzione alle carrozzine, e l’obiettivo di scatenarsi il più possibile sui carri; o la scelta, ai Pride istituzionalizzati, di madrine prelevate più spesso che no dal mondo delle celebrità cis etero e che si sono totalmente improvvisate sostenitrici dei nostri diritti, con molte cadute di stile quando si rivolgono loro domande su questioni più approfondite, e che sottolineano soltanto il bisogno, da parte di chi li organizza, di attirare quanta più gente possibile all’evento, anche a costo di invisibilizzarne il lato politico e civile; o la presenza di forze dell’ordine, nonostante quella stessa parata abbia una storia ben precisa a partire da quando durante i moti di Stonewall la comunità LGBTQIA+ newyorkese decise di ribellarsi ai loro abusi, e nonostante gli abusi delle forze dell’ordine perdurino ancora oggi e tutto ciò sia molto poco riconosciuto; o il rainbow washing praticato dalle aziende, che preferiscono lucrare vendendo alle persone queer partecipanti dei prodotti con sopra arcobaleni e facili slogan all’insegna dei buoni sentimenti, senza sostenere in modo attivo le istanze della comunità (ma laddove da un’azienda ci sarebbe da aspettarsi un simile comportamento, poiché ognuna ha principalmente a cuore i suoi interessi in un paradigma capitalista, al di là delle simpatie personali, è bene ricordare che in un movimento intersezionale per i diritti civili e sociali anche il capitalismo dev’essere messo in discussione, a costo di rifiutare qualche sponsorship molto prestigiosa per rimanere fedeli ai principii originari del Pride); la mala creanza di giornalist3 e fotograf3, che troppe volte compaiono solo per fotografare alcune persone durante la sfilata (talvolta senza il loro consenso, rischiando di far loro degli outing, e chiedendo persino una somma non indifferente per far sparire le foto che le ritraggono da articoli e portfolii online) e scompaiono quando il corteo converge verso il palco su cui vengono fatti i discorsi più seri, in merito alle istanze politiche; o infine la spaccatura, sempre più forte, tra i Pride istituzionalizzati e quelli dei collettivi che si sforzano di ripartire dal basso, di ripulirlo e di proporsi come una valida alternativa realmente intersezionale, più che trasversale e annacquata.
Ho voluto solo accennarvi, perché lo scopo del mio articolo è un altro. A fronte di un crescente disinteresse per la nostra comunità nel discorso mainstream, disinteresse che spazia dal numero sempre minore di notizie che ci riguardino da vicino nei media tradizionali alle politiche attivamente discriminatorie messe in atto dal nostro attuale governo, sarebbe il caso di prenderne atto e decidere di responsabilizzarci, anche durante le parti belle e divertenti incluse nella nostra attiva partecipazione a un corteo. In questo caso, rendendoci più ricettiv3 alla profondità, anche nei messaggi che vogliamo mandare.
Nel caso di un reale sostegno alla comunità bisessuale e biromantica, per esempio, responsabilizzarci a cominciare dagli slogan che scegliamo di sostenere, prediligendo la testa alla pancia, sarebbe una via.
E un’altra via sarebbe far notare a determinate categorie umane, con noi a marciare al Pride, che possiamo e dobbiamo chiedere di meglio da loro.
Quindi ho intenzione di illustrare qui dei vecchi slogan che, quando rispuntano a cadenza regolare nei mesi del Pride, rivelano una prospettiva molto escludente della nostra comunità. Lo scopo di questo elenco non è quello di puntarvi il dito contro, ma non lasciare che certi discorsi rimangano epidermici, e di incoraggiare la consapevolezza nell’esporli.
Partendo dal basso…
“O etero o gay sono tutti figli miei!”
Slogan tipicamente esposto, se non come iniziativa individuale, da membri di associazioni come AGEDO, o, in casi più rari e all’interno di un discorso in stile “le famiglie le crea l’amore e nella nostra c’è spazio per qualunque forma di amore”, da membri di associazioni come Genitori Rainbow e Famiglie Arcobaleno.
Sebbene l’intento sia ineccepibile, cioè quello di promuovere il messaggio che da un punto di vista di sostegno pratico ed emotivo o riconoscimento empatico non si facciano differenze per nessuno degli esseri umani che si sono generati, per il modo in cui è formulato è evidente che si inserisca nel solco delle dicotomie sugli orientamenti sessuali/romantici: “o etero o gay”, “due sponde/cambiare sponda”, “o sei in un modo o sei nell’altro”, con tutto il corollario di stereotipi, esagerazioni e bias cognitivi rispetto a ciò che questo “altro” vorrebbe dire. Al di là del fatto che ci sono mille modi per identificarsi anche all’interno degli orientamenti monosessuali/monoromantici, cosa dovrebbero dire le persone bi?
Chi vuole sostenerci ha il dovere di fare discorsi un po’ meno polarizzanti. E di ricordare che esistiamo e andiamo inserit3 nel discorso, in quanto la bicancellazione ha effetti tangibili sulle nostre vite e rende meno sicuri gli spazi che anche noi abbiamo il diritto di occupare.
È chiaro che ci sono altre minoranze lasciate indietro da uno slogan simile, ed è chiaro che elencarle tutte sarebbe stato impossibile. Ma malgrado sia una frase ancora frequente, stanno spuntando anche delle ottime alternative! Per esempio, “L’amore per mio figlio non lo decide il tribunale”, che in un colpo solo mette insieme la conferma dell’amore genitoriale, le disparità giuridiche di cui soffrono le persone che intessono relazioni non ciseteronormate o mononormate, e in ultimo ma non meno importante punta un faro contro i recenti attacchi alla stepchild adoption del nostro governo.
Quindi, se la creatività è una caratteristica che apprezziamo, perché non sfoderarla anche con slogan meno escludenti? Si può fare!
“Mi piace la patata ma supporto la parata”
Visto anche nella variante “Non mi piace la patata ma supporto la parata”, e ovviamente usato da ally cis etero. Al di là della problematicità o non problematicità del dichiararsi tali in uno spazio queer quasi mettendo le mani avanti, argomento già molto dibattuto, è chiaro che come slogan riprende la stessa bicancellazione del precedente: dove vanno a finire gli uomini bisessuali, visto che a molti di loro la patata piace? E poi, perché associare un determinato organo genitale a un’identità di genere, in questo caso l’essere donne?
Ma non è tutto: uno slogan del genere sembra sottendere che al Pride si stia manifestando solo ed esclusivamente per una serie di diritti che pongono al centro la sfera intima, privata, relazionale e sessuale. Ma ancora una volta, dove vanno a finire tutte le persone queer non interessate al sesso, a delle relazioni codificate in quei termini, e che hanno mille altre ragioni per essere lì oggi? Quelle, uno slogan del genere, vuole sostenerle, ne tiene conto? La risposta è no.
E se le vostre amicizie cis etero vogliono davvero fare la differenza, lì con voi oggi, possono prendere in esame l’idea di ampliare la prospettiva a cominciare anche dai codici comunicativi che utilizzano.
Pure in questo caso, si è già visto di meglio! Chi vuole mostrare empatia e vicinanza essendo ben consapevole del proprio posizionamento dall’esterno può benissimo giocare col concetto di Humanitas/umanità, ma ancora meglio per non renderlo troppo generico col rischio di cancellare la specificità relativa alla queerness, può interrogarsi a partire dalle proprie vicende ed esperienze personali. Cosa ha fatto scattare la consapevolezza che il mondo LGBTQIA+ andasse sostenuto? Quali riflessioni, quale spaccato di vita, quali episodi, quali esperienze?
Se è vero che il personale sia politico, per citare Carol Hanisch, è anche vero che non c’è nulla come il proprio piccolo, soggettivo, umano vissuto per dare vita a uno slogan che lo trascende.
Una delle tante cose belle dell’intersezionalità è che obbliga a interrogarsi, a scavare in profondità.
E questa è la chiave per partorire qualcosa che non sarà mai banale, che mostrerà al mondo un essere umano che si è davvero interrogato sul suo privilegio e ha deciso che voleva contribuire a eliminare qualche disparità di troppo per chi era Altrə da sé.
E a proposito dello scendere in profondità. Parliamo di qualcosa di talmente trasversale da interessare in potenza un sacco di persone queer che partecipano al Pride…
“Love Is Love”
Lo stavate aspettando al varco? Ebbene sì, il famosissimo slogan ripreso ovunque, incluse le aziende meno friendly del mondo, presenta delle criticità non da poco. A cominciare dal fatto che pretende, di solito, di poter essere generalizzato a tutta la comunità LGBTQIA+ e di rappresentare chiunque. Penne ben più affilate della mia hanno spiegato il perché e il percome, quindi andrò di domande retoriche:
Quando la smetteremo di appiattire la comunità intera sul concetto dell’amare chi ci pare?
Quando la smetteremo di svuotare di sostanza la tautologia del “l’amore è amore”, lasciando un margine interpretativo che si può riempire a partire dai bias cognitivi di chi lo legge/sente?
Quando la smetteremo di ignorarne la portata stucchevole, melensa, anche un po’ infantilizzante?
Quando la smetteremo di ignorare che tanto le prime immagini che vengano in mente grazie all’inflazione di questo concetto siano un paio di coppie omonormate e borghesi, del genere che non disturba nessunə e anzi serve a rassicurare la maggioranza che ci discrimina proponendo un’immagine più socialmente accettabile della queerness?
Quando la smetteremo di fingere che non esistano istanze, rivendicazioni, sfide, lotte del mondo LGBTQIA+ che con gli orientamenti sessuali non hanno nulla a che fare, esattamente come quello a cui andiamo non è affatto il “Gay” Pride?
Quando la smetteremo di ignorare negli slogan chi intraprende un percorso di transizione, che ha molto meno a che fare col “chi si ama” e molto più col “chi si è”?
Quando la smetteremo di avere noncuranza verso le persone ASPEC, di escludere dal discorso chi non cerca relazioni romantiche o sessuali, o chi ha relazioni che sfuggono dalle classificazioni nette perché magari sono queerplatoniche?
Quando la smetteremo di lasciare fuori dal discorso le persone kinky, che mettono in discussione il concetto dell’amore romantico con annessa sessualità vanilla, di cui tale slogan spesso riverbera in modo più o meno diretto?
Quando la smetteremo di dimenticare che ormai sia utilizzato anche dalle destre, per ridicolizzarlo, a causa della sua pervasività e dell’utilizzo pessimo che se ne fa?
Quando la smetteremo di omettere che anche nella nostra comunità esistano relazioni abusanti, violente, disfunzionali, con le loro specificità tra cui una maggiore difficoltà a chiedere aiuto a causa della lesboomobitransafobia, e che il nascondere la cosa sotto il tappeto ne agevoli il proliferare, visto che la retorica del “Love Is Love” può anche tradursi col “se lascio questa persona a essere invalidata sarà la mia queerness” e “se parliamo di abusi all’interno delle relazioni queer a rimetterci sarà la percezione della comunità intera all’esterno e pure all’interno”?
Quando la smetteremo di ignorare che le relazioni delle persone bisessuali e biromantiche siano molto meno sicure e tranquille di quanto questo slogan sottenda, giacché spesse volte la bifobia si traduce in un tasso di violenza significativamente più alto delle controparti etero e gay/lesbiche?
Spero presto, ma fino ad allora tutto il ho tempo per fare un callout.
Conclusioni
Non facciamoci illusioni. Il Pride per come lo conosciamo oggi ha mille difetti, e sensibilizzare chi partecipa ad aggiustare il tiro della comunicazione è una parte infinitesimale del lavoro da fare. Neppure è detto che riconosca l’importanza del veicolare un messaggio migliore, che non salti su a sentirsi censuratə, che sia davvero dispostə a fare un lavoro su di sé e chiedersi in profondità se quello che vuole dire arrivi per com’è.
Tuttavia, da qualche parte bisogna pur cominciare, anche a costo di sembrare pesanti o persone che spaccano il capello in quattro. Marciare per i nostri diritti non dovrebbe essere comodo, carino, coccoloso e soprattutto zitto nell’angoletto con l’illusione di andare tutt3 d’accordo: dovrebbe ricordarsi che stiamo in primo luogo sfidando un mondo che forte di una narrazione sbagliata ci ha oppresso per secoli, e che ancora adesso vorrebbe convincerci che “i problemi veri siano ben altri”.
Cambiare la narrazione dominante comporta una responsabilità difficile da prendersi nel momento in cui “esprimersi senza filtri” continua a contare più del “comunicare in maniera ragionata.”
Certo, una cosa è innegabile: ogni volta che scegliamo di lanciare uno slogan ricorriamo a una semplificazione.
Ma è anche innegabile che ci siano semplificazioni più intersezionali di altre.
E se dobbiamo ripartire da qualcosa, dobbiamo ripartire dall’intersezionalità delle discriminazioni che ci colpiscono, e cercare di fare del nostro meglio per non lasciare indietro nessunə.
Perché se c’è intersezionalità ci sono anche acume, riflessione, profondità. È da acume, riflessione e profondità che può sbocciare la consapevolezza.
Senza quella, siamo canne al vento, pronte per essere spazzate via dal prossimo temporale politico.
Ma se crediamo che ci si possa divertire con consapevolezza, se crediamo che la ricerca e la sperimentazione debbano partire da una necessità di autenticità da mostrare al mondo, se vogliamo promuovere empatia, discernimento, un’analisi lucida della comunità cui apparteniamo, se vogliamo sfoderare la nostra originalità perché rappresenti davvero quello che abbiamo dentro e quello che sta al nucleo fondativo del nostro movimento, abbiamo ciò che serve per proporre un discorso memorabile.
E la differenza tra ciò che rimane in superficie e ciò che promuove un cambiamento reale è proprio la memoria.
Perciò vi auguro un Pride memorabile: dai corpi che abitiamo, rendendoli un veicolo di espressione, comunicazione e libertà, fino agli spazi fisici, emotivi, psicologici, materiali, economici, politici, relazionali che ci riprendiamo.
Possiamo chiedere di più, e lo faremo.
