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ATTENZIONE: IL SEGUENTE ARTICOLO CONTIENE SPOILER SUL FINALE DELLA SERIE POSE
Alla propria nascita la serie Pose si presentava come un prodotto estremamente promettente in grado di portare delle storie fino ad allora invisibili nel panorama mediatico mainstream.
Nel corso delle prime due stagioni abbiamo potuto osservare racconti di persone ai margini della società americana degli anni ‘80 ed i modi in cui queste persone si ritrovavano e raggruppavano in famiglie elettive che offrivano accoglienza e supporto. Culturalmente il tutto è stato coronato da un’esplosione di personaggi transgender interpretati da attrici transgender (tra cui MJ Rodriguez, Indya Moore e Dominique Jackson), aspetto fondamentale in un momento in cui sugli schermi c’era ancora fin troppa esitazione nel permettere a persone di questa comunità di portare avanti le proprie voci.
Un aspetto fondamentale di Pose era lo sguardo assolutamente non-giudicante sulle strutture sociali non-normate portate avanti dalle comunità marginalizzate dell’epoca, mostrando aspetti anche difficoltosi delle loro vite come parte della quotidianità di un’epoca ancora estremamente conservatrice e limitante. Ciò ha aiutato la serie a raccontare in modo candido e emozionante aspetti della vita delle minoranze solitamente romanzati in modo eccessivo dal panorama mediatico, come ad esempio le fratture familiari, la difficoltà a trovare un posto in cui vivere, il sex work, le relazioni sentimentali non convenzionali, le violenze, la crisi dell’AIDS.
La serie è stata un successo, ottenendo l’amore della critica e dell’audience, aprendo molte porte al suo cast e riuscendo a fare un ottimo lavoro di educazione riguardo la storia della comunità queer degli anni ‘80 negli Stati Uniti. Nello specifico la cultura delle Ball ne ha giovato molto vedendo la propria identità portata sugli schermi con successo per la prima volta dall’uscita del documentario “Paris is burning”.
Nonostante tale successo si è potuto tuttavia osservare quanto alcune parti della società tendano a concentrarsi sempre sugli aspetti meno radicali, anche quando si parla di prodotti di successo, che è il motivo per cui molti fan hanno espresso sentimenti di amarezza nel vedere che il nome più premiato sia stato quello di Billy Porter, uno dei pochi attori cis del cast principale.
Dopo il successo iniziale della prima stagione ne è stata prodotta una seconda, che ha iniziato a discostarsi leggermente dal tono più realistico e con i piedi per terra della precedente ma che ha regalato ai fan comunque deliziosi momenti di rivendicazione e riappropriazione, redimendo Elektra e permettendo ad altri personaggi di perseguire le proprie passioni che gli erano state precluse fino a quel momento.
Un altro aspetto affascinante della seconda stagione è stato il narrare l’epidemia di AIDS in un modo abbastanza inaspettato, mostrandoci soprattutto il punto di vista dei sopravvissuti e delle attiviste che hanno cercato di sensibilizzare sul tema e spingere il governo ad agire per contenere la diffusione del virus.
Se nella prima stagione però si poteva osservare un cast di personaggi relegati ai margini della società, che si creavano una micro-cultura tutta loro con le proprie regole e i propri codici, con l’andare avanti della serie si è visto sempre di più come le persone queer tendessero sempre di più a desiderare di essere incluse nel sistema ciseterosessista che le aveva messe da parte. Questo però è in diretto contrasto con la trama che vede una sempre maggiore invasione e appropriazione da parte della cultura ballroom da parte del mainstream, a partire dal successo della canzone “Vogue”. Questa trama offre ottimi spunti permettendo allo spettatore di vedere le due facce dell’inclusione, una che permette di vivere all’interno della società in modo più sereno e partecipato e l’altra che porta a vedere la propria cultura assimilata e diluita da quella egemonica.

In un ironico scherzo del destino però, con l’aumentare della popolarità della serie, questa assimilazione e diluzione di cui ci ha raccontato ha iniziato a colpire il prodotto stesso con l’arrivo della terza stagione.
Al raggiungimento del finale la serie smette improvvisamente di raccontarci come le persone ai margini della società costruiscono comunità che gli permettono di avere una rete di supporto e sopravvivere e diventa invece una storia di de-radicalizzazione politica e assimilazione sociale, in cui i personaggi si pongono come scopo ultimo quello di rientrare il più possibile nei canoni di “normalità”. Questo messaggio colpisce particolarmente considerando che il contrasto al concetto stesso di normalità era stato uno dei capisaldi della serie fino a quel momento.
L’elemento che più di ogni altro simboleggia questo cambiamento di tono è quello della famiglia: nelle prime due stagioni le famiglie elettive all’interno della serie sono trattate come vere e proprie strutture in cui i personaggi hanno la possibilità di essere accolti ed evolvere, mentre nella terza si nota sempre una maggiore importanza data alle famiglie d’origine, trattando la famiglia elettiva quasi come una fase di passaggio di cui alla fine rimane ben poco. Nel corso di questa stagione finale quasi ogni personaggio principale si ritrova a confrontarsi o ricongiungersi coi propri genitori o a costituire la propria famiglia in senso più tradizionale del termine, lontana dagli schemi delle “house” che ci sono state presentate fino a quel momento.
Un altro aspetto che ci mostra la de-radicalizzazione politica della serie è il modo in cui viene trattata la tematica del AIDS, che inizialmente veniva affrontata in maniera decisamente differente dal dramma romanzato dei racconti sul tema presenti già nel panorama mediatico e lo utilizzava più come trampolino di lancio per mostrarci l’azione politica dei gruppi attivisti dell’epoca. Nell’ultima stagione la storia si concentra sempre di più sul personaggio interpretato da Billy Porter e ricalca gradualmente le narrazioni classiche al riguardo, con tutta la cornice del dramma, del rifiuto, l’accettazione da parte della famiglia, l’amore clandestino nella cittadina omofoba e la speranza di un miglioramento con una cura sperimentale. Tutto ciò a discapito della cornice che ci mostrava l’attivismo per la sensibilizzazione sul tema, che viene quasi completamente messo da parte in favore di un lieto fine per il personaggio principale e molta poca considerazione per come la comunità era ancora colpita dal diffondersi del virus e dall’abbandono da parte delle istituzioni.
L’ultimo aspetto della diluzione del messaggio della serie viene dal rapporto dei personaggi con i soldi. Nel corso della storia abbiamo sempre visto quanto la povertà era parte integrante della marginalizzazione dei personaggi della serie e abbiamo osservato quanto la lotta per poter avere un lavoro onesto era ostacolata da ogni fronte. Oltre a mostrarci cosa i personaggi dovevano fare per sopravvivere, la storia era anche molto attenta a mostrarci le conseguenze e i pericoli del guadagnarsi da vivere al di fuori degli schemi dettati dalla società, il che ci restituiva una prospettiva complessa sulla sopravvivenza nel sistema capitalista occidentale e sugli effetti di vivere al di fuori da ciò che è percepito come normato. Nell’ultima stagione tale sguardo complesso si sgretola con la storia di Elektra e di come improvvisamente il suo business diventa estremamente redditizio e le garantisce il rispetto e il favore incondizionato del crimine organizzato, dandole essenzialmente tutto ciò che può desiderare senza il minimo tornaconto. La serie incornicia questi avvenimenti come positivi e leggeri, rendendo quasi macchiettistica la povertà dei suoi personaggi e la sofferenza che si era tanto impegnata a rappresentare e vediamo come il motore delle motivazioni della maggior parte dei personaggi passa dal lottare per la sopravvivenza della propria comunità al lottare per poter vivere confortevolmente, in pieno accordo con gli schemi individualisti e capitalisti da cui la serie si era finora tenuta alla larga.
Con Pose dunque si è potuto notare un ulteriore esempio di un trend secondo cui una serie statunitense che inizia raccontando storie di persone dimenticate dalla società e marginalizzate con toni molto realistici ed evocativi si conclude con una storia quasi macchiettistica di conformazione e realizzazione personale. Questo aspetto, che aveva segnato anche il declino nei messaggi di altri prodotti come “Orange is the new black”, sembra essere inevitabilmente legato al successo di una serie e ci può aiutare a interrogarci su quanto il sistema hollywoodiano di produttori esecutivi, giurie di premi e contratti di distribuzione sia influente sulla visione di chi crea il prodotto. Infatti, a differenza dei film, le serie possono essere dirottate in corso d’opera nella speranza di abbracciare un pubblico sempre maggiore e dunque i prodotti di denuncia sociale e di sensibilizzazione su aspetti politici complessi sono destinati a diluirsi il più possibile per aumentarne l’audience e a de-radicalizzarsi per proteggere la sensibilità del pubblico.
Essendo la produzione e distribuzione delle serie un sistema estremamente complesso con meccanismi molto radicati non è facile trovare soluzioni al problema, ma ciò che si può provare a fare è coltivare una sensibilità sempre maggiore del pubblico nel recepire i messaggi fondanti di prodotti di questo tipo e seguire sempre di più quelli che evitano questo tipo di compromessi, magari perché creati da persone che fanno parte delle stesse comunità di cui si racconta.